Le
organizzazioni che si occupano di salute delle persone sono imbricate
su più livelli di priorità. Tenere insieme aspetti clinici,
organizzativi e professionali non sempre quindi può risultare
lineare e coerente con quelli che a torto o a ragione dovrebbero
essere i valori che ispirano le organizzazioni sanitarie. Troppi si
riempiono la bocca con la parola “mission”, poi quando la
situazione è precaria, indefinita o pericolosa saltano tutti i
discorsi e si pensa solo a salvare il salvabile e a volte è solo
l’ansia di qualcuno che va tutelata. In un Servizio per le
Dipendenze può capitare così che emergano differenti approcci alla
gestione di una particolare situazione e non sempre è possibile
trovare una soluzione condivisa. Ultimamente mi sto domandando cosa
stia capitando dalle mie parti, professionalmente parlando
ovviamente. Così, durante un interessante riunione è emerso il
principio di necessità. Si fa quello che è necessario, mi è stato
detto. Una frase sicuramente dotata di senso, ma quel necessario a
chi è riferito? Alla persona di cui ci prendiamo cura?
All’organizzazione che annaspa per contenere il personaggio? A chi
gestisce l'organizzazione, per evitare spiacevoli coinvolgimenti?
Così
mi sono fatto alcune domande. Andando a cercare qualche definizione
ho trovato questa su Wikipedia, che per quanto parziale o discutibile
può risultare interessante. Questa
espressione indicava i poteri eccezionali esercitabili nei casi in
cui si doveva fronteggiare una situazione imprevista e imprevedibile,
caratterizzata dall'urgenza e improrogabilità del provvedere. Le
norme ispirate a questo principio disciplinano i casi in cui fattori
imprevisti e imprevedibili impongono l'adozione indifferibile di
misure straordinarie finalizzate a fronteggiare situazioni di
emergenza: di solito, si tratta di calamità naturali, stato di
guerra, ordine pubblico, epidemie, ecc. Non
essendo un medico, ho cercato poi la definizione di stato di
necessità, secondo l’articolo 54 del Codice Penale: non
è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto
dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente
causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia
proporzionato al pericolo.
Mi
sembra di capire che questo principio si ispiri all’urgenza, a
fattori imprevisti, che poco possono essere governati e che quindi si
è chiamati a rispondere in maniera rapida, senza aver troppo tempo
per riflettere.
A
me non risulta di lavorare in uno stato di guerra, anche se a volte
l’aggressività che portano i pazienti, e a volte i colleghi,
possano ricordare vagamente un conflitto armato. Certo le
sollecitazioni, a volte forti e imprevedibili di alcuni mettono alla
prova i nervi e le capacità contenitive di singoli e gruppi di
lavoro, ma per il sottoscritto pensare che il principio di necessità
sia il faro a cui ispirarmi per le mie riflessioni ed azioni mi pare
per lo meno poco appropriato, almeno nell’ambito in cui opero come
educatore professionale.
Con
questo non dico che non sia importante offrire una risposta, anzi, ma
occorre costruirla basando le riflessioni e le successive azioni su
un principio a me più vicino, il principio di giustizia, tentare di
fare la cosa giusta per la persona. Mentre il principio di necessità
mette al centro la constatazione che la persona soggetto
dell’intervento non sia in grado di essere parte attiva del
processo, il principio di giustizia gli consegna in mano un potere
che probabilmente userà male, ma che è importante che lui abbia
sempre con sé. Mettere al centro la persona presuppone che questa
possa muoversi con grande libertà all’interno del percorso di
cambiamento. Come educatore posso accompagnarlo, mostrargli altri
panorami e scenari, oppure contenerlo quando l’irragionevolezza
prende il sopravvento, perché la lucidità a volte è merce rara.
Mentre il principio di giustizia lascia libero la persona, quello di
necessità gli dice di non essere in grado di provvedere a sé,
almeno in quel momento. Concetto molto noto agli psichiatri e ai
giudici tutelari, istituti giuridici molto ben definiti, che servono
a proteggere la persona, ma anche la società e i patrimoni. Anche il
principio di giustizia può essere manipolato, mettendo al centro
l’organizzazione o il benessere di qualche operatore, ed è per
questo che occorrerebbe condividere con il gruppo di lavoro non solo
il qui ed ora del trattamento ma provare, per quanto energie e tempo
lo permettano di tentare di abbozzare un orizzonte di significato.
Già i nostri pazienti vivono situazioni caotiche, che tendono a
riprodurre incessantemente nelle loro relazioni, perché capaci di
fare solo quello. In più se l’istituzione risponde come rispondono
tutti gli altri, risulta difficile che l’incontro con il Servizio
sia occasione trasformativa, piuttosto sarà l’ennesima
constatazione che tutti sono uguali. L’obiettivo non è quello di
essere diversi, e per questo motivo migliori di altri, ma quello di
offrire un funzionamento che esca dalle logiche imperanti del sistema
economico. Non si può negare la centralità culturale di come questo
approccio abbia pervaso ogni aspetto della vita professionale e
privata di ogni persona e organizzazione, ma un Servizio per le
Dipendenze non è un ambulatorio ortopedico, dove occorre sistemare
lussazioni e fratture, per quanto doloroso e tecnico possa essere.
Dalle nostre parti arriva un’umanità sofferente, ma ancora vitale
almeno dal mio punto di vista, che si allontana dal concetto di
normalità socialmente definito e che in qualche modo si accorge
delle stonature dell’ambiente in cui sono immersi. Per sopportarle
però scelgono dei comportamenti o delle sostanze che apparentemente
aiutano, ma che alla fine presentano un conto molto salato. Una volta
intrapreso un percorso di cura, una volta che si è imparato a tenere
a bada certi demoni, la stonatura rimane, perché è uno sgradevole
sottofondo che tutto permea e per quanto ne siamo tutti immersi, come
educatore ho il dovere professionale di tentare di proporre un
modello alternativo a quello che ci circonda e di farlo in maniera
attiva e con una buona dose di chiarezza. Quando però in un gruppo
di lavoro esistono più principi che ispirano le azioni, sulla lunga
distanza non può che risolversi in un danno alla persone di cui ci
prendiamo cura. Sul lungo periodo i diversi principi si scontreranno,
sollecitati dalle evoluzioni del paziente e dal conseguente e
inevitabile disorientamento che queste provocano negli operatori. Ma
non si può pensare, almeno in un Servizio per le Dipendenze, che ci
sia un giorno di lavoro tranquillo. Quando si lavora con delle
persone che evidentemente non stanno così bene, è inevitabile che
ne succedano di tutti i colori. Con il principio di necessità in
qualche modo si negano queste possibilità, con il principio di
giustizia si riconoscono e si accettano. Se è necessario nutrirsi, è
giusto scegliere determinati cibi e non altri per il proprio
benessere, se non si vuole morire avvelenati.