banner

banner

mercoledì 1 febbraio 2017

3960. Tra principio di necessità e principio di giustizia


Le organizzazioni che si occupano di salute delle persone sono imbricate su più livelli di priorità. Tenere insieme aspetti clinici, organizzativi e professionali non sempre quindi può risultare lineare e coerente con quelli che a torto o a ragione dovrebbero essere i valori che ispirano le organizzazioni sanitarie. Troppi si riempiono la bocca con la parola “mission”, poi quando la situazione è precaria, indefinita o pericolosa saltano tutti i discorsi e si pensa solo a salvare il salvabile e a volte è solo l’ansia di qualcuno che va tutelata. In un Servizio per le Dipendenze può capitare così che emergano differenti approcci alla gestione di una particolare situazione e non sempre è possibile trovare una soluzione condivisa. Ultimamente mi sto domandando cosa stia capitando dalle mie parti, professionalmente parlando ovviamente. Così, durante un interessante riunione è emerso il principio di necessità. Si fa quello che è necessario, mi è stato detto. Una frase sicuramente dotata di senso, ma quel necessario a chi è riferito? Alla persona di cui ci prendiamo cura? All’organizzazione che annaspa per contenere il personaggio? A chi gestisce l'organizzazione, per evitare spiacevoli coinvolgimenti?
Così mi sono fatto alcune domande. Andando a cercare qualche definizione ho trovato questa su Wikipedia, che per quanto parziale o discutibile può risultare interessante. Questa espressione indicava i poteri eccezionali esercitabili nei casi in cui si doveva fronteggiare una situazione imprevista e imprevedibile, caratterizzata dall'urgenza e improrogabilità del provvedere. Le norme ispirate a questo principio disciplinano i casi in cui fattori imprevisti e imprevedibili impongono l'adozione indifferibile di misure straordinarie finalizzate a fronteggiare situazioni di emergenza: di solito, si tratta di calamità naturali, stato di guerra, ordine pubblico, epidemie, ecc. Non essendo un medico, ho cercato poi la definizione di stato di necessità, secondo l’articolo 54 del Codice Penale: non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
Mi sembra di capire che questo principio si ispiri all’urgenza, a fattori imprevisti, che poco possono essere governati e che quindi si è chiamati a rispondere in maniera rapida, senza aver troppo tempo per riflettere.
A me non risulta di lavorare in uno stato di guerra, anche se a volte l’aggressività che portano i pazienti, e a volte i colleghi, possano ricordare vagamente un conflitto armato. Certo le sollecitazioni, a volte forti e imprevedibili di alcuni mettono alla prova i nervi e le capacità contenitive di singoli e gruppi di lavoro, ma per il sottoscritto pensare che il principio di necessità sia il faro a cui ispirarmi per le mie riflessioni ed azioni mi pare per lo meno poco appropriato, almeno nell’ambito in cui opero come educatore professionale.
Con questo non dico che non sia importante offrire una risposta, anzi, ma occorre costruirla basando le riflessioni e le successive azioni su un principio a me più vicino, il principio di giustizia, tentare di fare la cosa giusta per la persona. Mentre il principio di necessità mette al centro la constatazione che la persona soggetto dell’intervento non sia in grado di essere parte attiva del processo, il principio di giustizia gli consegna in mano un potere che probabilmente userà male, ma che è importante che lui abbia sempre con sé. Mettere al centro la persona presuppone che questa possa muoversi con grande libertà all’interno del percorso di cambiamento. Come educatore posso accompagnarlo, mostrargli altri panorami e scenari, oppure contenerlo quando l’irragionevolezza prende il sopravvento, perché la lucidità a volte è merce rara. Mentre il principio di giustizia lascia libero la persona, quello di necessità gli dice di non essere in grado di provvedere a sé, almeno in quel momento. Concetto molto noto agli psichiatri e ai giudici tutelari, istituti giuridici molto ben definiti, che servono a proteggere la persona, ma anche la società e i patrimoni. Anche il principio di giustizia può essere manipolato, mettendo al centro l’organizzazione o il benessere di qualche operatore, ed è per questo che occorrerebbe condividere con il gruppo di lavoro non solo il qui ed ora del trattamento ma provare, per quanto energie e tempo lo permettano di tentare di abbozzare un orizzonte di significato. Già i nostri pazienti vivono situazioni caotiche, che tendono a riprodurre incessantemente nelle loro relazioni, perché capaci di fare solo quello. In più se l’istituzione risponde come rispondono tutti gli altri, risulta difficile che l’incontro con il Servizio sia occasione trasformativa, piuttosto sarà l’ennesima constatazione che tutti sono uguali. L’obiettivo non è quello di essere diversi, e per questo motivo migliori di altri, ma quello di offrire un funzionamento che esca dalle logiche imperanti del sistema economico. Non si può negare la centralità culturale di come questo approccio abbia pervaso ogni aspetto della vita professionale e privata di ogni persona e organizzazione, ma un Servizio per le Dipendenze non è un ambulatorio ortopedico, dove occorre sistemare lussazioni e fratture, per quanto doloroso e tecnico possa essere. Dalle nostre parti arriva un’umanità sofferente, ma ancora vitale almeno dal mio punto di vista, che si allontana dal concetto di normalità socialmente definito e che in qualche modo si accorge delle stonature dell’ambiente in cui sono immersi. Per sopportarle però scelgono dei comportamenti o delle sostanze che apparentemente aiutano, ma che alla fine presentano un conto molto salato. Una volta intrapreso un percorso di cura, una volta che si è imparato a tenere a bada certi demoni, la stonatura rimane, perché è uno sgradevole sottofondo che tutto permea e per quanto ne siamo tutti immersi, come educatore ho il dovere professionale di tentare di proporre un modello alternativo a quello che ci circonda e di farlo in maniera attiva e con una buona dose di chiarezza. Quando però in un gruppo di lavoro esistono più principi che ispirano le azioni, sulla lunga distanza non può che risolversi in un danno alla persone di cui ci prendiamo cura. Sul lungo periodo i diversi principi si scontreranno, sollecitati dalle evoluzioni del paziente e dal conseguente e inevitabile disorientamento che queste provocano negli operatori. Ma non si può pensare, almeno in un Servizio per le Dipendenze, che ci sia un giorno di lavoro tranquillo. Quando si lavora con delle persone che evidentemente non stanno così bene, è inevitabile che ne succedano di tutti i colori. Con il principio di necessità in qualche modo si negano queste possibilità, con il principio di giustizia si riconoscono e si accettano. Se è necessario nutrirsi, è giusto scegliere determinati cibi e non altri per il proprio benessere, se non si vuole morire avvelenati.


Nessun commento: