Lavoro da
ormai dieci anni come educatore professionale per aiutare i giocatori
d'azzardo patologici a smettere e dedicare le loro energie a qualcosa
di più vitale e piacevole. Spesso mi è capitato in questi ultimi
mesi di sentirli commentare positivamente l'iniziativa del Comune di
Torino, come da legge regionale, di limitare gli orari di accensione
delle slot e delle VLT. Poteva capitare che avessero voglia e con
qualche decina di euro in tasca volessero andare a giocare, peccato
che le trovavano spente, così tornavano a casa in qualche modo
contenti, perché non avevano giocato e perché le Istituzioni li
avevano aiutati a fare qualcosa che qualche volta non possono
controllare. Non si tratta solo di una questione di volontà, ma il
giocatore proprio non può fare a meno di mettere denaro in quelle
macchinette, ben sapendo che spesso non vincerà. Quando parlo con
loro spesso gli rimando che sono comunque responsabili delle loro
azioni ma soprattutto dell'impegno che hanno nei loro confronti e nei
confronti delle persone che gli vogliono bene, di smettere di giocare
d'azzardo. Alcune volte ci riescono, altre no. Con il tempo le cose
migliorano e anche nelle famiglie si torna a respirare un'aria
migliore, ma non tutte le storie finiscono bene, perché alcuni
compiono omicidi oppure si tolgono la vita. Anche questa è la realtà
che baristi, tabaccai, gestori di sale slot, Concessionarie e governi
vari hanno contribuito a creare. Non ci si può tirare indietro e
dire che è un problema del singolo, una sua debolezza e che nessuno
è responsabile perché le macchinette sono lì, a disposizione di
chi le vuole. Ogni slot è disegnata per tenere il giocatore il più
a lungo possibile attaccato al suo schermo, fintanto che le tasche
non sono vuote. In cambio promette una ipotetica vincita in denaro e
tanta felicità. Non possiamo far finta che non sia la realtà.
Estrarre valore dai giocatori è la principale preoccupazione di
questa industria. Obiettivo legittimo, visto con gli occhi
dell'imprenditore. Molto meno visto con gli occhi dell'educatore. Ora
ognuno è libero di compiere gli atti che più gli si addicono, ma se
un numero di baristi, tabaccai e gestori di sale iniziasse a farsi
delle domande, e alcuni lo hanno già fatto, sul come creano la loro
più o meno grande ricchezza, si tornerebbe a pensare alle persone
come a delle persone, non a degli oggetti da cui estrarre valore,
costi quel che costi.
Infine
due parole sui numeri. Notizie giornalistiche riportano che il
provvedimento comunale è stato sospeso dal Consiglio di Stato perché
è un fenomeno che non è fuori controllo, perché secondo chi ha
presentato il ricorso riguarda un numero infinitesimo di torinesi, lo
0,03percento. Se contiamo che nel capoluogo piemontese vivono
900mila persona, anche se sono un po' meno, il calcolo porta a 270
persone. Da dove venga questo esiguo numerino posso anche
immaginarlo, cioè alle persone che si rivolgono ai Servizi per le
Dipendenze torinesi, anche se nel 2014 erano 316
e negli anni sono aumentate. Nella Relazione al Parlamento sui dati
relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia 2015 è scritto
che i giocatori problematici e a rischio di gioco patologico sono
pari al 2,1percento e i giocatori d'azzardo patologici sono pari
all'1,9percento. Chissà come mai non sono stati usati questi numeri,
che fanno dire che ci sono almeno 17mila persone che hanno seri
problemi con il gioco d'azzardo a
Torino.
Ma il punto è che non esistono solo questi servizi per prendersi
cura del gioco d'azzardo patologico, ma sopratutto non si può far
discendere sempre tutto da un mero calcolo economico, così come non
trovo etico e morale non fare ricerca scientifica per patologie che
colpiscono pochissime persone. Eppure
queste persone meriterebbero almeno una speranza
che
un giorno venga trovata una cura, ma nessuno ahimè investe per
curare poche persone. Una soluzione che trovo aberrante, sopratutto
quando si leggono i fatturati di BigPharma e i guadagni dei loro CEO.
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