Con il
sottotitolo “Contro la flessibilità”, Luciano Gallino, sociologo
torinese, pubblica nel 2007 questo interessante saggio fin troppo
chiaro fin dal titolo. L'autore analizza la situazione e smonta, anche a
suon di cifre, il paradigma che più flessibilità significa
inequivocabilmente più lavoro. Analizza poi il nuovo mantra chiamato
flessicurezza, anch'essa molto poco fattibile, almeno nel nostro
paese e che rappresenta più una pezza al problema, che una
soluzione.
Il
peso attribuito alla flessibilità del lavoro ai fini dello sviluppo
finisce inoltre per rivelarsi un alibi che aiuta a non discutere
d'altri temi parimenti importanti. A non discutere, ad esempio, della
scarsa attività di ricerca svolta in proprio dalle imprese italiane,
fatte salve le solite eccezioni; della quota minima di fondi
realmente spesi in attività di formazione dei dipendenti sul totale
del bilancio; dell'assenza di visioni industriali capci di imprimere
una forte carica innovativa a intere di branche d'attività; della
rinuncia a difendere e rilanciare settori tecnologici vitali per il
XXI secolo, a cominciare dall'informatica e dall'aeronautica, che
pure potevano contare ancora negli anni Settanta, in Italia, su
solide premesse; delle privatizzazioni mal concepite, che hanno
privato il paese sia di gioielli tecnologici, sia di ben rodati
strumenti di sviluppo di infrastrutture pubbliche. Quanto dev'essere
riposante discutere di flessibilità nei convegni, e scriverne per
lustri interi sui quotidiani e riviste, anziché trattare a fondo
simili temi.
La
flessibilità funge altresì da mezzo di comunicazione: è un modo
per far sapere a coloro che stanno meglio che nel caso non
acconsentano a ricevere salari calanti e a fruire di minori diritti,
il lavoro andrà in misura crescente a chi sta peggio
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