lunedì 29 giugno 2015

3211. Il lavoro non è una merce


Con il sottotitolo “Contro la flessibilità”, Luciano Gallino, sociologo torinese, pubblica nel 2007 questo interessante saggio fin troppo chiaro fin dal titolo. L'autore analizza la situazione e smonta, anche a suon di cifre, il paradigma che più flessibilità significa inequivocabilmente più lavoro. Analizza poi il nuovo mantra chiamato flessicurezza, anch'essa molto poco fattibile, almeno nel nostro paese e che rappresenta più una pezza al problema, che una soluzione.

Il peso attribuito alla flessibilità del lavoro ai fini dello sviluppo finisce inoltre per rivelarsi un alibi che aiuta a non discutere d'altri temi parimenti importanti. A non discutere, ad esempio, della scarsa attività di ricerca svolta in proprio dalle imprese italiane, fatte salve le solite eccezioni; della quota minima di fondi realmente spesi in attività di formazione dei dipendenti sul totale del bilancio; dell'assenza di visioni industriali capci di imprimere una forte carica innovativa a intere di branche d'attività; della rinuncia a difendere e rilanciare settori tecnologici vitali per il XXI secolo, a cominciare dall'informatica e dall'aeronautica, che pure potevano contare ancora negli anni Settanta, in Italia, su solide premesse; delle privatizzazioni mal concepite, che hanno privato il paese sia di gioielli tecnologici, sia di ben rodati strumenti di sviluppo di infrastrutture pubbliche. Quanto dev'essere riposante discutere di flessibilità nei convegni, e scriverne per lustri interi sui quotidiani e riviste, anziché trattare a fondo simili temi.

La flessibilità funge altresì da mezzo di comunicazione: è un modo per far sapere a coloro che stanno meglio che nel caso non acconsentano a ricevere salari calanti e a fruire di minori diritti, il lavoro andrà in misura crescente a chi sta peggio

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