giovedì 5 aprile 2012

815. Il pensiero di Eleonora Artesio sul piano socio-sanitario


Copio e incollo il pensiero di Eleonora Artesio a proposito del nuovo piano socio-sanitario appena approvato. Per quanto sembra scritto con un linguaggio un pochettino tecnico, lo trovo un contributo interessante, soprattutto perché sottolinea come questo strumento non sia stato utilizzato mettendo al centro i bisogni dei cittadini, ma che risponde a altre logiche di tipo economico e manageriale. Temi non certo disgiunti, ma quando si scrive un piano si parte dai bisogni di salute dei cittadini, che devono essere resi armonico con organizzazione e costi.

Il nuovo piano socio-sanitario regionale non è uno strumento di programmazione per le seguenti ragioni:

1) non si fonda sulla valutazione degli obiettivi di salute da perseguire e sul livello di raggiungimento degli stessi finora attuato. Infatti tutti i commenti della maggioranza sottolineano che il sistema sanitario piemontese è di qualità, ma troppo costoso; quindi il piano si propone il contenimento dei costi non la conservazione e il miglioramento dei livelli qualitativi;


2) gli interventi presentati come innovativi sarebbero realizzabili a leggi vigenti: l’organizzazione di area vasta per le funzioni non sanitario-assistenziali era possibile ai sensi della legge regionale 18/2007 individuando coordinamenti tra aziende o aziende capofila di funzioni, anziché creare corpi intermedi di diritto privato con i conseguenti costi dell’amministratore delegato e dei revisori dei conti;

3) la rete ospedaliera si costruisce attraverso la condivisione di protocolli di intervento tra le componenti professionali, prima che attraverso un decreto di gerarchizzazione degli ospedali come invece appare la tabella allegata al piano. L’insufficiente motivazione fornita ai territori e il disarmante annuncio ribadito dall’Assessore su Lanzo e sull’Amedeo di Savoia rispetto all’assenza ad oggi di un progetto di riconversione o di trasferimento lascia aperte le insicurezze e restituisce un’idea di potere esercitato senza l’obbligo della prova;

4) il ripetuto impegno a riorientare le risorse recuperate dai risparmi sanitari sull’assistenza non trova corrispondenza sui programmi delineati per i servizi socio-sanitari. Relativamente alle non autosufficienze si rimanda a una legislazione futura; intanto però circolano bozze di delibere per rideterminare i parametri assistenziali ed economici delle Rsa. Le aree della salute mentale e delle dipendenze sono trattate in modo superficiale e anacronistico e ignorano le precedenti soluzioni organizzative, come i dipartimenti delle dipendenze, le partecipazioni programmatiche e gestionali del privato sociale e delle associazioni, come nei comitati di partecipazione, i progetti  integrati di inclusione sociale, come i piani locali della salute mentale e delle dipendenze;

5) i progetti di salute allegati al piano, introdotti a forza di emendamenti, riflettono lo stato dell’arte delle relazioni tra i professionisti e tra i servizi, ma non introducono impegni dell’amministrazione regionale per il futuro. Anzi, dove si interviene per cambiare come nella rete oncologica, sembra che la nuova organizzazione sia stata pensata più a partire dalle unità operative ospedaliere che dai percorsi di continuità assistenziali integrati per i pazienti.

Gli emendamenti depositati e discussi hanno cercato di introdurre nel piano un cambiamento del punto di vista: a partire dalle persone e dai loro bisogni di salute, anziché dall’organizzazione; anche perché si spende molta retorica nel parlare dei percorsi assistenziali e della loro continuità, ricordando giustamente che su di essi si misura l’efficienza e si produce anche rigore economico, dopodiché si adotta con la logica dell’emergenza un approccio rovesciato che pretende di agire sui costi fissi delle strutture del personale. In questa logica anche i riferimenti alle professioni hanno cercato di documentare i buoni livelli raggiunti, laddove ci si è organizzati per percorsi e in forma integrata. Su molti temi il piano ignora le esperienze precedenti e introduce compiti, forse dipartimenti, che dovrebbero garantire non la continuità ma il passaggio di responsabilità: chi agisce nell’ospedale e fino a quando e chi agirà nel territorio e per quanto. Emblematico è il contesto della medicina di famiglia: se non ci fossero stati gli emendamenti non si sarebbe dato conto nemmeno del percorso integrato del paziente diabetico il cui buon esito di salute e di risparmio è indiscusso. Nulla viene detto o favorito rispetto alla medicina in associazione se non  un annuncio fideistico sulla costituzione dei CAP – Centri di Assistenza Primaria. E’ data per scontata l’adesione dei medici di medicina generale a questa modalità di organizzazione delle cure primarie nel distretto, senza che ad oggi siano pubblici i risultati dei rapporti anche contrattuali intercorsi tra la Regione e le organizzazione di rappresentanza delle medicina generale. Non è dato sapere quindi se e quanti CAP si inaugureranno nel breve periodo e se questi effettivamente rappresenteranno un’alternativa sostenibile anche ai fini dell’emergenza di bassa complessità, atteso che i CAP vengono presentati come alternativa ai punti di primo intervento degli ospedali da riconvertire.

Tutto il settore dell’emergenza-urgenza soggiace ad una attesa di ciò che deve ancora accadere: archiviata per la forte opposizione professionale e politica l’idea dell’azienda autonoma del 118, ora è annunciata la costituzione di una competenza regionale dedicata in Assessorato sulla questione, continuando nella strada ripetutamente dichiarata dall’Assessore di voler governare più direttamente questo segmento del sistema, ai suoi occhi segnato da eccessivi particolarismi e fors’anche da una capillarità cui si vuole mettere mano attraverso la modifica della “flotta”, passando dalle ambulanze alle auto mediche cui dovrebbe corrispondere una diversa gestione sanitaria dei codici lievi.

Sull’impianto complessivo aleggia un atteggiamento che potrebbe essere definito come minimo di presunzione e come massimo di autoritarismo: si suppone che la classificazione degli ospedali modificherà i comportamenti degli utenti e dei professionisti senza rendere conto del lungo lavoro che invece dovrebbe impegnare l’amministrazione per passare dalla rete gerarchica deliberata alla rete sanitaria riconosciuta dagli operatori e riconoscibile dai cittadini. Del resto sia la redazione sia lo stile di questo piano socio-sanitario hanno estromesso la partecipazione dei soggetti del sistema: le amministrazioni locali sono state trattate come i sindaci del campanile; i professionisti dichiarati soggetti in esubero e interessati alle proprie posizioni economiche o di prestigio; i cittadini come persone da convincere rispetto a decisioni illuminate, essendo privi di strumenti di giudizio propri. Non è un caso quindi che il piano socio-sanitario non abbia ricevuto l’approvazione della Conferenza di Programmazione Sanitaria che è rappresentativa degli enti locali e delle parti sociali; ma la Giunta continua ad annunciare la rivoluzione epocale. Adesso si deve documentare la conseguenza di ogni singolo atto di applicazione di questa presunta riforma, possibilmente prima che faccia troppo male.

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