Che
il continente asiatico sia un mistero per noi occidentali credo sia abbastanza
intuibile. Non solo la globalizzazione, ma il loro atteggiamento verso il mondo
esterno è particolare, per cui sono rimasto colpito, ma solo in parte, di
sapere che estiste un reality molto seguito dal titolo: “Interviste prima
dell’esecuzione”, andato in onda dal 18 novembre 2006 fino a venerdì scorso. Davanti
alle telecamere, per duecento puntate, ha portato davanti al pubblico
altrettanti condannati a morte, in genere proprio nell’ultimo giorno della loro
vita. Un successone, con quaranta milioni di spettatori incollati ai
teleschermi ogni sabato sera, e uno straordinario trampolino di lancio per la
giornalista Ding Yu, non a caso conosciuta come “la Bella con le Bestie”.
L’incantesimo
oggi si è spezzato, perché tutti in Cina erano estremamente convinti della bontà
della trasmissione, quando un documentario di un regista australiano, trasmesso
lunedì dalla Bbc con il titolo “Dead Man Talking” ha convinto i produttori della tv cinese
della provincia di Henan a interrompere le trasmissioni adducendo non meglio
precisati problemi interni.
Interessante
come, tra le motivazioni che rendevano utile il programma, vi fosse l’idea che raccontare
casi del genere potesse servire d’esempio.
Il
motto di Mao Tze-Tung: punirne uno per educarne cento è ancora molto ben
radicato nella cultura cinese, e non solo in quella mi risulta.
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