Copio
e incollo questo racconto breve del bravo Sebastiano Vassalli, pubblicato su Il Corriere della Sera.
C'erano una volta, in Italia, le
tabaccherie. Che vendevano «sali, tabacchi, chinino e valori bollati». E
vendevano anche tante altre cose: dai fiammiferi alla liquirizia alle biglie
per i bambini. Ora, i sali e il chinino si vendono altrove, i fiammiferi non si
sa quasi più cosa siano e chi va in tabaccheria a comprare francobolli rischia
di non trovarli, o di non trovarli nel taglio voluto. Le tabaccherie sono i
terminali del gioco d'azzardo: di quel lotto, così definito, nel Dizionario
universale della lingua italiana di Policarpo Petrocchi (1887): «Sorta di gioco
illecito e immorale che qualche Stato tiene a rovina delle famiglie e a
vantaggio dell'erario». Seguono i proverbi, tra cui: «Il denaro del lotto è il
sangue del povero». «Vincere al lotto è come pescare un cece in mare». «Chi dal
lotto spera soccorso mette il pelo come un orso» (spiegazione poco convincente:
per la fame). «Chi gioca al lotto è un gran merlotto». «Il lotto divaga la
fame» (altra spiegazione: non vi fa pensare). «Chi gioca al lotto non vince
neanche alle nove», eccetera. (Ma questa dei proverbi era la saggezza di quando
le tabaccherie vendevano ancora il chinino).
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